L’appello

28 giugno - MAXXI


 

Siamo GREEN perché pensiamo che solo a partire da un “green new deal” si può ritrovare speranza in un futuro migliore del presente e si possono superare le grandi crisi – sociale, economica, ecologica – dell’Italia e del mondo. Serve un nuovo patto sociale fondato sulla green economy e sulla conversione ecologica di produzioni e consumi: un patto per risollevare l’Italia nel segno della sostenibilità ambientale e sociale; per creare ricchezza senza distruggere la natura, il paesaggio e gli equilibri ecologici; per creare lavoro investendo nella qualità ambientale e nelle altre grandi risorse immateriali come l’educazione, la cultura, la conoscenza, la coesione sociale, la partecipazione democratica, la legalità.

Amiamo l’Italia, per questo la vogliamo più sostenibile, più dinamica, più equa, più civile. Crediamo che il nostro Paese abbia le risorse materiali e morali, il patrimonio di saperi scientifici e tecnologici, necessari a garantire una prospettiva di sviluppo duraturo e di benessere diffuso: ma tale possibilità non è scontata, per concretizzarla occorre dare nuova centralità ai valori dell’equità sociale, della sostenibilità ambientale, dell’etica pubblica, della promozione del merito individuale.

Al centro della nostra iniziativa mettiamo cinque parole.

La prima parola è crisi, come problema e come occasione e necessità di cambiamento. Nessun nuovo progetto politico è oggi non solo credibile, ma nemmeno dicibile,  se esso non si offre quale risposta concreta e innovativa alla crisi di questi anni. Una crisi molteplice, che come in un gioco di scatole cinesi ne contiene diverse, tutte fra loro collegate ma ciascuna con propri tratti specifici. Vi è la crisi globale di un’economia finanziaria che lasciata crescere senza limiti, né regole, né controlli, ha colpito al cuore l’economia reale, distrutto milioni di posti lavoro, alimentato fenomeni inediti e terribili di sofferenza sociale. Vi è la crisi europea del lavoro che manca sempre di più, alimentata da molte scelte recenti di politica economica dell’Unione europea che hanno puntato esclusivamente sull’obiettivo di una drastica riduzione di deficit e debiti pubblici; di un orizzonte competitivo che vede irrompere nuovi e formidabili protagonisti globali; dei nostri sistemi di welfare che rischiano di pagare prezzi pesantissimi alle politiche di risanamento dei bilanci pubblici. Ancora, vi è la crisi climatica ed ecologica, i cui tempi sono più dilatati ma i cui costi prevedibili, sociali ed economici, fanno impallidire tutto il resto. Per l’Italia, vi è poi un’ulteriore scatola cinese, un supplemento di crisi sociale, ambientale, democratica. Siamo tra i grandi Paesi europei uno di quelli con la distanza maggiore e più rapidamente crescente tra ricchi e poveri, con la percentuale più alta di giovani senza lavoro, dove l’amministrazione pubblica funziona peggio e costa di più, dove i meriti individuali, la mobilità sociale e le aspirazioni dei più giovani sono sistematicamente sacrificati agli interessi auto-conservativi di piccoli e grandi gruppi di pressione interessati soprattutto a difendere il loro potere e i loro privilegi; convivono tra di noi un popolo di evasori fiscali e un altro popolo di contribuenti tassati per oltre metà del loro reddito; siamo assediati da fenomeni consolidati e ormai endemici di illegalità, dalle mafie alla corruzione; abbiamo tra le città più inquinate d’Europa e problemi di degrado ambientale che almeno in questa forma e dimensione sono altrove sconosciuti, come l’abusivismo edilizio o il diffuso dissesto territoriale; aumenta ogni minuto la sfiducia e il disprezzo dei cittadini, dei “rappresentati, verso la classe politica, verso i “rappresentanti”. Tutti questi mali italiani nascono almeno in parte dalle medesime cause: la lontananza delle classi dirigenti dall’interesse generale e dal senso stesso dell’etica pubblica, l’idea che i problemi inediti del mondo d’oggi si possano risolvere affidandosi alle stesse logiche, alle stesse mentalità che tali problemi hanno determinato.

La seconda parola è green come green economy. Fino a qualche anno fa l’ambiente evocava soprattutto valori e bisogni, era un campo d’impegno prevalentemente culturale e sociale ed era, al tempo stesso, il terreno di un conflitto ricorrente e prevalente tra ragione ambientale e ragione economica. Oggi l’ambiente è ancora, certo, un valore e un bisogno primari, è ancora e sempre di più l’idea di un bene comune da difendere e che non può, non deve venire ridotto a merce. Ma oggi l’ambiente coinvolge rilevantissimi interessi economici, è il simbolo ed è il motore di una nuova economia che si dimostra particolarmente efficace come antidoto alla crisi e come base per un rinnovato e duraturo benessere. E’ la green economy dell’innovazione energetica, della chimica verde, della mobilità sostenibile, della valorizzazione del paesaggio, delle “smart city”, dei nuovi materiali, del riciclo dei rifiuti. Un’economia che genera ricchezza, dà lavoro, senza dissipare risorse naturali e senza far crescere l’inquinamento, anzi contribuendo a risolvere problemi ambientali: un tempo si sarebbe detta un’economia a basso contenuto di entropia. E’ questa la via giusta, e l’unica via plausibile, anche rispetto al dibattito talvolta un po’ astruso  sulla cosiddetta decrescita felice: l’unica via che fa decrescere l’impatto sui sistemi naturali di produzioni e consumi, dà speranza e futuro a miliardi di donne e di uomini che vivono tuttora in condizioni umane inaccettabili, dà speranza e futuro a Paesi come il nostro altrimenti condannati al declino.

La terza parola è “glocal”, come intreccio virtuoso tra dimensione globale e locale. Ci piace che il mondo attuale assomigli molto più di ieri a quella che Edgar Morin chiama “terra-patria”: nella quale circolano e si scambiano liberamente, grazie soprattutto alla rete, conoscenze ed esperienze; nella quale il benessere è un orizzonte non più limitato soltanto a pochi Paesi; nella quale si afferma l’universalità dei diritti umani, civili, sociali. La globalizzazione è un processo grandioso, inarrestabile, ma è anche un processo ambiguo:  se guidata da logiche e da interessi ristretti, come accade oggi, può perpetuare ed aggravare i fenomeni di povertà, di crisi ecologica, di deterioramento e frammentazione sociale. Più di tutto va combattuta l’idea che per trovare spazio – spazio economico, spazio culturale – nel mondo globalizzato, ogni comunità debba rinunciare alla propria identità e omologarsi ad uno stesso modello. E’ vero il contrario: globalizzazione e identità sono bisogni inscindibili, nella loro necessaria compenetrazione vive la possibilità di conservare senso all’idea di progresso. Come italiani, possiamo avvertire con una forza speciale questa consapevolezza: siamo gli eredi e i custodi delle mille città, dei mille territori che fanno dell’Italia un grande, prezioso, inimitabile mosaico. Luoghi di identità, di storie, di economie tutte diverse e tutte a loro modo uniche, luoghi chiamati oggi a confrontarsi con i flussi della globalizzazione: per l’Italia, davvero, la via alla “buona globalizzazione” non può che essere “glocal”.

La quarta parola è patria, come Italia e come Europa. Ci sentiamo legati, profondamente legati, alla patria italiana e alla patria europea, e pensiamo che solo in un forte investimento di idee, di azioni, di risorse umane ed economiche nella sostenibilità ambientale l’Italia e l’Europa possano trovare un futuro degno e desiderabile. Per noi il patriottismo non è appartenenza di “sangue”, ma di “progetto”: si è italiani e si è europei per “ius soli”, se si vive stabilmente su questi “suoli” riconoscendosi perciò in un destino comune, e qualunque sia l’origine, la cultura, la religione dei propri genitori. Siamo convinti che all’Italia in particolare, l’ambiente abbia molto da chiedere – li abbiamo rovinati più di altri il nostro ambiente, il nostro paesaggio – ma anche molto da dare. Se l’economia verde è quella che produce benessere e prosperità senza intaccare il capitale naturale, allora si può dire che l’Italia l’economia verde l’ha inventata, l’ha praticata con successo, prima di tutti gli altri. Vi è insomma una “green economy” in salsa italiana che si fonda sulla bellezza, la creatività, la convivialità, il legame sociale e culturale tra economia e territorio: tutte materie prime immateriali e dunque ecologiche, tutti talenti dei quali abbondiamo e che oggi sono la nostra arma migliore, forse l’unica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi di declino. Ci piace sentirci italiani e ci piace sentirci cittadini europei. Ci piace molto meno l’Europa come funziona oggi: gli stessi che hanno lasciato crescere senza regole l’economia finanziaria, oggi vorrebbero ridurre l’idea europea, l’idea federalista di Spinelli, a un direttorio di banchieri e di burocrati senza democrazia. Per questo serve un nuovo progetto di integrazione europea, basato su istituzioni democraticamente legittimate e ispirato ai criteri della sostenibilità sociale e ambientale: un cammino così è anche l’unico antidoto efficace all’ascesa sempre più minacciosa di forze populiste, anti-europee, nazionaliste, eredi dirette dei fantasmi peggiori della storia europea.

Infine, la quinta parola è ottimismo. Per affrontare la crisi, la crisi globale e il “di più” di crisi italiana, servono fiducia e ottimismo. Non servono invece, peggio sono un problema, classi dirigenti come la nostra che nella politica come nel sindacato come nelle rappresentanze industriali pensano ancora, con poche eccezioni, di vivere nel Novecento, privilegiano sistematicamente la conservazione rispetto all’innovazione. Come si fa a seminare ottimismo se si è convinti che il futuro dell’energia è bucherellare il territorio, i fondali marini alla ricerca di qualche barile di petrolio, più che promuovere l’efficienza energetica e le energie pulite? Se si regalano sussidi a settori decotti come l’autostrasporto o i grandi consumatori di energia e contemporaneamente si azzerano le risorse per il trasporto pubblico locale o l’efficienza energetica? E come si fa a trasmettere fiducia se si pensa e si dice che il futuro del Mezzogiorno è nel modello-Ilva, che il futuro della Sardegna è nelle miniere del Sulcis? I minatori del Sulcis vanno difesi ad ogni costo nel loro reddito e nella loro dignità, ma continuare a spendere miliardi per estrarre carbone – oltretutto pessimo carbone – dalle miniere del Sulcis è un attentato contro il benessere presente e futuro della Sardegna e contro l’Italia.

Proprio l’estraneità alla cultura ecologica è uno dei tratti più vistosi di questa non contemporaneità, di questa formidabile resistenza al cambiamento che accomuna buona parte delle forze politiche e sociali italiane, ed è uno dei principali ostacoli che  impedisce di avviare l’Italia su un cammino rinnovato di progresso che riconosca e sappia interpretare le trasformazioni sociali, economiche, geopolitiche, culturali simboleggiate dal passaggio di millennio. L’ecologia oggi evoca sfide immense e decisive: problemi globali come la crisi climatica, la perdita accelerata di biodiversità, la distanza sempre più larga tra ricchi e poveri e la persistente, enorme disuguaglianza nell’accesso alle risorse che condanna miliardi di persone ad una vita di miseria disperata; problemi europei, come l’urgenza di costruire un nuovo modello energetico fondato sull’efficienza e sulle fonti pulite; problemi spiccatamente italiani come l’inquinamento urbano, il dissesto del territorio, l’illegalità dell’abusivismo edilizio, la criminalità delle ecomafie. Ma l’ecologia è anche una grande speranza, richiama valori, bisogni, interessi oggi centrali nella società: i valori di quanti considerano che non possano più esservi progresso e benessere senza una profonda conversione ecologica delle produzioni, dei consumi, dell’organizzazione sociale, capace di porre un argine alla dissipazione delle risorse naturali e di fermare i cambiamenti climatici costruendo rapidamente le fondamenta di un’economia e di una società “low carbon”; i bisogni di chi ritiene che vivere senza inquinamento – di una fabbrica, di una città – sia un diritto, come il lavoro e come la libertà, e che acqua, aria, suolo siano beni comuni; gli interessi di migliaia di aziende  che investendo in produzioni e in tecnologie green  si dimostrano più forti della crisi economica e reclamano politiche pubbliche – non sovvenzioni, politiche – e regole più semplici e trasparenti che ne sostengano lo sforzo.

Nell’incontro del 28 giugno presenteremo i contenuti programmatici del “green new deal” che proponiamo per l’Italia. Un nuovo patto che deve cambiare in profondità tutte le principali scelte pubbliche: dal fisco alle politiche industriali, dal welfare alla spesa pubblica, dalle infrastrutture ai trasporti, dalla legalità alle politiche civili e dei diritti. La nostra iniziativa politica non nasce contro nessuno e anzi può contribuire a un’evoluzione positiva anche delle forze politiche tradizionali. Non nasciamo contro nessuno ma nasciamo proponendo un’idea di sviluppo che non è aggiuntiva, è alternativa rispetto a quelle correnti nella politica e tra le classi dirigenti italiane. Il terreno della nostra riflessione, del nostro progetto è lo stesso terreno praticato in tanti Paesi europei da partiti e movimenti che ponendo l’ambiente al centro del loro discorso sono diventati il punto di riferimento di un numero crescente di cittadini. Di un’offerta politica così anche l’Italia ha bisogno per tornare a credere in se stessa e per aiutare l’Europa a ritrovare la via del futuro. Noi ci impegneremo per costruirla.